venerdì 9 novembre 2012

FDS



Fenomenologia dello Spirito (1807)


Fenomenologia (phainomenon, “fenomeno”, “apparenza” e logos, “discorso”, “dottrina”, “scienza”): è l’insieme ordinato dei fenomeni della coscienza, ossia il modo attraverso cui la coscienza si manifesta, tanto quella universale, dell’umanità storica che ha fatto certe esperienze culturali, quanto quella del singolo. La coscienza procede ampliando sempre più le proprie conoscenze, e così amplia il proprio ambito fino ad inglobare tutta la realtà (cioè a diventare ragione, ovvero “certezza di essere ogni realtà”).
Il cammino della coscienza è come una valanga che raccoglie nel suo procedere sempre una maggiore quantità di neve. Solo arrivati al punto finale, possiamo ricapitolare tutte le esperienze (figure) fatte, che si sono svolte secondo il ritmo dialettico, e comprenderne la necessità.
La FdS presenta questo processo della coscienza: mentre conosce, allarga i propri confini, amplia se stessa, il proprio orizzonte, ogni volta arrivando ad un’esperienza (figura) più alta, secondo il procedimento dialettico, a partire dalle primissime esperienze sino alle più alte: la totalità di tutte le esperienze fatte dalla coscienza costituiscono la FdS (si ricordi “il vero è l’intero).
La FdS costituisce così il romanzo di formazione (Bildung) della coscienza, ed è insieme formazione filosofica per il lettore, un’introduzione alla filosofia come sistema [di Hegel!, che si ritiene tout court “il” sistema] che si compie facendo, anzi rifacendo con la memoria le esperienze compiute dalla storia della filosofia (prima parte) e dalla storia della cultura umana (seconda parte).
Si rifiuta così il modo della “critica” kantiana, come momento preliminare alla filosofia (sarebbe come voler imparare a nuotare prima di gettarsi in acqua, dice Hegel): già la fenomenologia è filosofia.
L’opera si divide in due parti: la prima espone il percorso dal è punto di vista della coscienza individuale (Coscienza, Autocoscienza, Ragione) la seconda dal punto di vista della storia della cultura umana (Spirito, Religione, Sapere assoluto).  Queste sei parti sono precedute da una Prefazione e da un’Introduzione. Siccome nella seconda parte Hegel dice cose che ripeterà più ampiamente nell’Enciclopedia e nelle altre opere, la nostra breve presentazione si limiterà alla prima parte.


Vediamo lo schema della prima parte della FdS. Essa corrisponde ovviamente al ritmo dialettico: tesi, antitesi, sintesi.

1.     Coscienza.
2.     Autocoscienza. 
3.     Ragione.

Quale è il percorso? Cosa vuol dire Hegel? Hegel vuol dire che il punto di vista iniziale, ingenuo, quello per cui noi pensiamo che da una parte c’è l’io (la coscienza) dall’altra c’è il mondo, (l’oggetto, la realtà) deve essere superato. Si deve arrivare a quel punto di vista per cui ci si rende conto che la realtà è posta dall’io, in altre parole dalla coscienza. E che quindi tutta la realtà è, in qualche modo, coscienza. (per lo meno quella razionale). Ora per giungere a questo punto, occorre fare un cammino, un cammino difficile, travagliato in cui la scissione tra sé e il mondo (che è, più fondamentalmente, quella della coscienza con se stessa) sia “tolta”, “superata”, mille volte prima di  giungere finalmente alla riconciliazione finale. Tuttavia, essa non potrà essere solo a livello di coscienza individuale, ma dovrà compiersi solo come Spirito
Ora, a grandi linee, si può dire che nel primo momento, quello della coscienza, noi pensiamo che il modo sia la fuori e lo conosciamo con la nostra coscienza. La coscienza è sempre coscienza di, indica quindi sempre un oggetto.
Nel secondo momento, noi arriviamo alla consapevolezza che siamo noi (il soggetto) a porre il mondo (o, come dice Kant, è l’io, il soggetto, il legislatore del mondo): quindi, in questo secondo il momento, l’attenzione si pone sul soggetto. La coscienza di… diventa coscienza di coscienza; autocoscienza.
Nel terzo momento, la ragione, si compie la conciliazione di oggetto (coscienza) e soggetto (autocoscienza).


All’inizio c’è la posizione più ingenua, che sembra anche la più ricca per conoscere la realtà. La coscienza: essa pensa che ci sia da una parte il mondo, la realtà. Dall’altra l’io. A livello più basso la coscienza crede che la conoscenza consista nel sentire il mondo con i sensi, cioè con la sensazione o certezza sensibile. La coscienza dice “ecco qui davanti a me l’oggetto”, “questo è l’oggetto davanti a me”. Questa frase è la frase in cui la coscienza crede di potersi accontentare della semplice indicazione “questo”. Il che le appare un’evidenza assoluta. (es. questo diario davanti a me, questo foglio che ho tra le mani!)
Ma se io mi rendo conto del contenuto di conoscenza di questo “questo”, mi rendo conto che è privo di contenuto.
Quando dico “questo”, non indico nulla dell’oggetto, dico solo “qui davanti a me, in questo momento”. (spazio-tempo) Posso dire “questo” per indicare qualsivoglia contenuto, qualsivoglia oggetto. Infatti, quando io determino il “questo”, non dico altro che il “qui” (spazio) e l’ora” (tempo), insomma la struttura formale vuota. Anziché essere un “concretissimum”, come mi pareva prima, il “questo” si scopre un “abstractissum”, privo di ogni determinazione che non sia lo spazio e il tempo.
A questo punto la coscienza sperimenta un’inadeguatezza davanti all’oggetto. La certezza sensibile, dà solo determinazioni astrattissime.
Sarà necessario che io attribuisca determinati caratteri: per esempio dirò “nero” bianco”, verde”. (questo foglio è nero, è bianco, etc). Faccio, con ciò, riferimento non più al dato spazio temporale, ma a un carattere che sembra inerire alle cose. Parliamo quindi di “qualità”. Anche questo piano è un piano di sensi, la percezione. La percezione consiste nel dare note, indicazioni, qualità, attributi all’oggetto.
Questa, a un primo acchito, sembra una vera conoscenza.
Io dico. “Questa penna è nera”, cioè “quest’oggetto ha il carattere nero”. “nero” è un elemento che mi permette di definire un particolare (questo libro, questo foglio, etc) attraverso l’universale. “nero” è un universale.
Il mio discorso si presenta dunque così:
X è … a
X è … b
X è … c, d, f, etc.
Dove “x” è la cosa particolare, “a”, “b”, “c”, “d”, etc sono elementi universali (nero, bianco, etc)
Ora, è vero che la penna è vera, ma non che il nero sia la penna. Nero è il fumo, l’inchiostro, la notte. Insomma, quando predico di una cosa l’universale, io non dico ciò che una cosa è, ma a quali elementi è assimilabile. Ho l’impossibilità a dire il particolare, perché il particolare può essere detto solo attraverso l’universale. Ma questo vuol dire assimilare il particolare a gruppi di cose (gli universali sono gruppi), cui affermo che una cosa è simile. Dunque, nel dato della percezione, io non dico mai quello che una cosa è, ma quello che non è, cioè quello cui è simile, ciò cui appartiene. Appartiene a qualcosa che non è lei, cioè all’insieme di cose che hanno gli stessi caratteri. [Hegel pensa alla disputa medievale degli universali]
Fino a che ci muoviamo nei sensi, nella percezione, non comprendiamo l’oggetto.
Per oltrepassare il piano dei sensi dobbiamo comprendere che tutte le qualità che la percezione mi ha dato si colgono solo se le consideriamo connesse in una struttura unitaria, il concetto. L’oggetto è nero, è anche liscio, è anche rotondo etc. La comprensione degli oggetti non è nella percezione, ma nell’intelletto: solo esso mi da il concetto.
L’intelletto è lo strumento che dalle cose vuole cogliere non l’elemento empirico, ma la struttura che sta al di sotto di tutte le qualità. Il passaggio dalla percezione all’intelletto è il passaggio dal mondo sensibile al mondo intellegibile.
Devo comprendere “il concetto di penna”, non lo trovo nel mondo sensibile, ma è quello che io strutturo, ed è l’unità che raccoglie tutte le note dell’oggetto.
Fin qui: sensazione, percezione, intelletto: tesi, antitesi sintesi. Ma è anche lo sviluppo storico della filosofia. Cartesio è il grande pensatore dell’intelletto, ma chi porta alle estreme conseguenze l’intelletto è Kant. Egli infatti dice che il concetto è l’unità delle molteplici determinazioni. [Inoltre Hegel allude, in questo percorso appena presentato, alle diverse facoltà prospettate da Kant: la sensazione è l’estetica trascendentale (spazio e tempo), percezione e intelletto rappresentano la logica trascendentale fino all’analitica…Ma c’è una differenza con Kant. In Hegel c’è la storia, c’è lo sviluppo che va dalla certezza sensibile all’intelletto. Kant dà per scontato tutto]
L’intelletto è la conoscenza tipica della scienza: Si tratta di individuare i concetti, le leggi, le connessioni: studiare la natura “formaliter spectata”. L’intelletto è il momento in cui l’indagine scientifica cerca di cogliere dalla realtà l’elemento che tiene insieme, struttura, articola, tutti i dati empirici.
Ma Kant ci ha detto che l’intelletto ha in sé le strutture conoscitive, le impone al mondo esterno.
Quindi le strutture non le “ricaviamo dalla” realtà, ma le “imponiamo alla” realtà. Per comprendere l’oggetto, noi non dobbiamo limitarci all’osservazione della realtà, ma dobbiamo indagare ciò che permette all’uomo di imporre leggi al mondo.  La coscienza del mondo deve diventare coscienza di sé: autocoscienza.
Per Hegel, questo lo afferma Cartesio. Perché Cartesio per parlare di verità indaga il soggetto, cioè se stesso? Perché è da lui che bisogna partire per vedere l’apparato concettuale che noi imprimiamo alla natura. Kant incarna questo processo storico che era partito da Cartesio. Per conoscere la realtà si tratta di conoscere noi stessi.
Questo è dunque il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza.
Se la coscienza si sente inappagata quando ricerca nella realtà la struttura delle cose, questo vuol dire che è lei l’oggetto da analizzare. Quello che prima appariva qualcosa di altro, diverso, opposto, in altre parole l’oggetto, quello che era una duplicità esterna (soggetto-spirituale da una parte e oggetto-materiale dall’altra), diventa una duplicità interna all’autocoscienza. La duplicità che la coscienza manifesta tra soggetto e oggetto, diventa una duplicità interna all’autocoscienza. È un contrasto interno all’autocoscienza tra il modo di strutturare le cose (la soggettività) e il prodotto della soggettività (l’oggettività).
Nella figura dell’autocoscienza, l’oggetto di studio è la coscienza stessa: io chi sono? Che faccio? Qual è il mio destino? Chi mi dà fondamento?
Ma questo passaggio da coscienza ad autocoscienza è ulteriormente complicato da Hegel.
La coscienza, diventata autocoscienza, ha un problema. Quando conosce gli oggetti, sa che l’oggetto è plasmato con le proprie strutture. Ma, a breve andare, essa è colpita da una paura.
Non mi basta sapere che l’oggetto è prodotto da me: perché non so se innanzi tutto l’io è libero o è un automa.
Io, che produco l’oggetto, sono libero?
Per sapere ciò, non posso rimanere da solo. Nessuno può dirmi se sono in errore o nella verità, se il mondo che plasmo è reale o immaginato, sonno o veglia.
Cado nella disperazione, nel solipsismo. Sono un automa o sono libero? Urge che io lo sappia. Ma devo, per far ciò, confrontarmi con un’altra autocoscienza che ha compiuto il mio stesso percorso.
La ricerca quindi diventa lotta. Non devo più comprendere l’oggetto, ma indagare in me stesso in quanto autocoscienza e ingaggiare una lotta per il riconoscimento, con un'altra autocoscienza, per far si che essa diventi uno specchio di me, per rimandarmi l’immagine di un padrone (quindi signore, cioè non schiavo) del mondo.
Ecco perché la prima figura della autocoscienza è la lotta per il riconoscimento. (meglio conosciuta come dialettica del servo e del padrone)
Due autocoscienze confliggono tra di loro, ciascuna per farsi riconoscere dall’altra. “solamente con il rischio della vita si conquista la libertà”… diversamente io sarei costretto ad essere solo, deprivato da ogni rapporto nei confronti del mondo, chiuso dentro di me (solus ipse).
Non si può avere, quindi, consapevolezza di quello che si è se non si è riconosciuti. Noi siamo liberi se qualcuno ci riconosce come tali. Io sono perché qualcun altro mi riconosce. Il riconoscimento degli altri è essenziale per la nostra identità. Ma è una lotta per il riconoscimento: è una dimensione di confronto agonico. Solo lottando con un’altra autocoscienza può avvenire questo riconoscimento, perché non possono bastarmi a ciò le cose: le cose sono il prodotto dell’io, e non possono riconoscermi.
La lotta è dunque necessaria.
Attraverso la paura della morte, il servizio, e il lavoro, si ha il ribaltamento dialettico per cui si capisce che il servo è veramente libero e signore del signore, mentre il signore dipende dal servo. (cfr. Abbagnano- Fornero, par. 8.2)
La dialettica servo-padrone è l’esempio di vera dialettica. Il rovesciamento dialettico si ha nella sintesi, dove viene inglobata sia la tesi che l’antitesi. Il servo contiene se stesso e il padrone. Il procedere, l’aufheben, è semplicemente un inglobare. Traduciamo questo termine con superamento-conservazione (col trattino), “togliere (in italiano del primo ‘900, quello delle traduzioni che abbiamo di Hegel) (tollendum est Octavium, portare in alto e uccidere)
Dalla dialettica servo-padrone giungiamo ad una nuova figura, di chi è nel contempo schiavo e libero, lo stoicismo. Epitteto. Io non sono schiavo del mio corpo. Io sono libero perché non me ne curo. Questo passaggio concettuale indica un gradino della coscienza, un passaggio obbligato nella storia del suo sviluppo.Lo stoico è libero pur rimanendo schiavo. Pensando si è liberi.
Lo stoicismo è la figura in cui la coscienza, percependo dentro di sé la lacerazione tra libertà e schiavitù, ha relativizzato questo contrasto; esso è ora entro la coscienza. Esso cioè diventa, dentro la coscienza storica, il contrasto tra interno (libero) ed esterno (corpo – schiavo). Questa contraddizione attraversa tutto lo stoicismo: il saggio è colui che è in grado di superare l’angustia dovunque si trovi, anche nella più triste schiavitù. (Seneca) La libertà nasce dalla coscienza interiore di essere liberi.
Non c’è nulla al mondo che possa convincere lo stoico a fare qualcosa, se lui stesso non lo vuole. L’esterno non può comandare l’interno. Extrema ratio, se proprio tutte le altre vie sono chiuse, è il suicidio stoico, per evitare di cadere nella schiavitù.
Questo ragionamento pone una contrapposizione tra esterno e interno. Questa tappa essenziale porta a separare ciò che è mio, soggettivo, e ciò che appartiene al mondo, oggettivo.
Lo stoicismo avvia quel processo in cui si apre una nuova contraddizione: tra soggettivo e oggettivo. Il mio mondo, quello del soggetto, è quello in cui sono libero; mentre nel mondo oggettivo, sono limitato. Questo modo di pensare fa sì che ci sia una contraddizione tra ciò che è vero, tra ciò che è indubitabile, tra ciò che, quindi appare alla mia coscienza, e ciò che è dubbio, ciò che è in sé (cosa in sé, !), ciò che è oscuro e non appare alla coscienza.: siamo quindi nello Scetticismo.
Lo scetticismo, secondo Hegel, è la verità dello stoicismo. Esso è già contenuto implicitamente nello stoicismo.
Nello scetticismo l’essenza sfugge, e lo scettico è colui che deve contentarsi del fenomeno. Hume, lo scetticismo nella sua forma moderna, e lo scetticismo classico (Pirrone).
Saggio è sospendere il giudizio sulla realtà, perché circa la realtà non sappiamo nulla: divorzio della coscienza dalla verità.
Lo scetticismo è una coscienza che per quanto si affanni non raggiungerà mai la verità.
Tanto più si sforza di cercare, tanto più trova conferma il fatto che nulla di ciò che è nel mondo si può conoscere.
E allora si trapassa in una nuova figura: la coscienza infelice.
La coscienza è diventata orfana della verità, e perciò infelice.
La parte migliore le manca. Essa è irraggiungibile alla coscienza. Tale parte migliore è “l’essenza intrasmutabile” (che non muta), Dio. Mentre essa rimane “essenza trasmutabile”.
Si avverte dunque il senso di una separazione tra l’uomo e Dio (“il mondo vero”);
L’infelicità assume dapprima la forma del rapporto della coscienza con il Dio totalmente altro nella religione ebraica. Dio esiste, ma è totalmente lontano, irraggiungibile.
Il Dio degli ebrei è in collera con l’uomo, e dunque inaccessibile a lui. La coscienza ebraica è la coscienza disperata di un popolo che si sente eletto ma è sottoposto alle prove più dure. La sua sorte è l’errare continuo senza mai trovare la propria patria né il proprio Dio,  perché le è negato per principio, essendo “assolutamente altro”.
Un’altra forma d’infelicità è quella cristiana primitiva e medievale[1]: invece di cogliere il vero significato spirituale del cristianesimo [conciliazione di Dio (infinito) e uomo (finito) ], si va alla ricerca delle tracce storiche del Cristo, Ora appunto il cristianesimo primitivo e medievale ha ridotto la ricerca di Dio a quella del Cristo storico, e ha poi continuato questa ricerca con le crociate, tentativi di impadronirsi del sepolcro di Cristo. Ma questa ricerca è fallimentare, si trova solo una tomba vuota[2], e la coscienza cristiana (medievale) rimane infelice. Hegel descrive poi più minutamente le forme della coscienza cristiana medievale, e più generalmente del modo di vivere il cristianesimo non confacente al suo senso più profondo (riconciliazione finito-infinito), ma ancora esprimente una lacerazione tra finito e infinito: la devozione (rinchiudersi nella ricerca di un’atmosfera spirituale e mistica interiore), il fare e l’operare (il lavoro al servizio di Dio dei monaci, in cui alla fine si scopre che il frutto del lavoro è un dono di Dio, e che quindi ad operare è direttamente Dio, e non noi), la mortificazione di sé (negare se stessi totalmente a favore di Dio). È proprio a questo punto, quello più basso raggiunto dalla coscienza infelice, che si ha il ribaltamento dialettico e si trapassa ad un’altra tappa del cammino della coscienza: la ragione.  Il Cristianesimo medievale è stato «superato» dalla filosofia moderna, che ha detto che Dio non si trova né lontano, né nel cuore, ma è immanente, presente: con Spinoza Dio diventa immanente nelle cose. Con la religione dell’immanenza finisce la distinzione tra mondo falso e mondo vero, e tutta la realtà è considerata come vera. La sostanza (il mondo) diventa soggetto, e viceversa.

Ragione
Ragione osservativa: noi osserviamo se nel cosmo vi sia razionalità. La lettura di questa razionalità permette di dire che tutto ciò che si configura nella natura non è casuale. La forma della pianta è adatta all’ambiente, quella del pesce è adatta al suo habitat., etc. Ma, in questo mondo naturale, nota Hegel, è come se la ragione apparisse ingessata, pietrificata, staticizzata. Cioè, la natura è un mondo inconsapevole, rigido, pietrificato di manifestazione della ragione. (nella natura l’idea si da nella forma del suo essere altro, nella sua alienazione). La razionalità cioè, nella natura, c’è, ma si coglie non nel suo elemento dinamico, nel suoi sviluppo dialettico completo, spirituale, bensì nel suo elemento statico. Le scienze della natura, matematica, fisica, astronomia etc, sono, parimenti, scienze troppo statiche, schematiche, precostituite e dogmatiche, che non colgono la realtà nel suo movimento dialettico, non colgono lo spirito.Hegel, dopo aver accennato alle scienze naturali, apre la prospettiva della lettura della ragione nell’organismo vivente umano. Qui la ragione cerca se stessa con l’ausilio del livello cui era giunta, ai tempi di Hegel, la scienza empirica della coscienza, cioè la psicologia. Essa era giunta, nel Settecento, ad elaborare due metodi: la fisiognomica e la frenologia. La fisiognomica è quella “scienza” che pretende di ricavare i caratteri spirituali dell’uomo da quelli fisici (es, la conformazione del corpo, la morfologia determinerebbe l’intelligenza, la bontà, la criminalità di un soggetto; specie la conformazione dei tratti del volto, ecc.).La frenologia pretende invece di studiare lo spirito dell’uomo dalla conformazione dell’encefalo, dei “giri” del cervello.
Queste scienze sono del tutto incapaci di fornire un’autentica conoscenza dello spirito, e in più sono casuali, sono false. Hegel usa diverse decine di pagine per confutarle, dato che esse avevano parecchio seguito ai suoi tempi. Esse pretendono, in sostanza, di determinare il carattere dello spirito (qui si parla di spirito come sinonimo di singola coscienza) dalla forma di un “osso”.
La ragione attiva



La terza sezione della FdS ha come sottotitolo “l’idealismo”. La filosofia della ragione è idealismo e viceversa. Tutto ciò che avviene, che esiste, è spiegabile razionalmente. Il mondo, la realtà, non è un accumulo casuale di fatti, ma ha una profonda trama logica, di cui i fatti sono l’elemento evidente, e divengono intelligibili solo grazie ad esso. (Hegel critica anticipatamente la visione positivista della scienza, come scienza dei “fatti”. Non esistono i fatti che parlano da soli. I fatti parlano solo in un certo contesto. È il contesto che parla.)
Il finito è posto dall’infinito, vale a dire: il fondamento di tutto ciò che è finito è l’infinito. Questo è l’idealismo.
La ragione dunque è la certezza – da parte della coscienza –di essere ogni realtà.  Questa certezza deve passare da una fase implicita ad una fase esplicita. Quindi anche la figura della ragione ha delle sue sub figure: Ragione osservativa, ragione attiva, (ragione come) individualità in sé e per sé (cioè certa di sé).
Vediamo solo le prime due fasi di questa terza parte, cioè la ragione osservativa e la ragione attiva.

«Lo spirito è un osso» = la morfologia determina il carattere spirituale.

Da dove possiamo comprendere la coscienza come ragione? Non possiamo “vederla” con gli occhi empirici (non è un osso!), ma nelle sue proprie manifestazioni, in ciò che essa fa. Dobbiamo individuare la razionalità sul piano dell’azione. In questa analisi dell’agire Hegel si serve di tre figure:
1.     Il piacere e la necessità (Faust)
2.     La legge del cuore e il delirio della presunzione (I Masnadieri di Schiller, Rousseau)
3.     La virtù e il corso del mondo (Don Chisciotte)

1. Se io cerco la razionalità solo in ciò che faccio, c’è chi pensa che l’agire secondo lo spirito sia quello di esplicitare al meglio la propria capacità di godimento. È l’edonismo, “il piacere dà senso alla vita”, per questo io sono disposto a considerare la mia anima come nulla, e venderla anche al diavolo, se me ne si presenta l’occasione (Il Faust).
La figura di Faust è quella dell’uomo che raggiunge il vertice del successo e anche del godimento. Ma il senso della sua vita è di “consumare” la vita. Quando la vita di Faust giunge alla sua pienezza egli «lascia dietro di sé solo cenere».Non lascia nulla dietro di sé, perché il suo senso è di bruciare continuamente quello che ha compiuto. Dunque questa forma di edonismo coniuga insieme il piacere e la morte. Vive nell’orizzonte della morte e persegue la morte.
Perseguendo il piacere si diventa schiavi della necessità della natura, che lo domina e di cui diventa inevitabilmente parte. Noi, in quanto organi senzienti della natura, ci limitiamo a “fare il gioco” della natura, e non possiamo che consumarci, morire. Il piacere è la necessità…
E dunque il Faust, della prima edizione dell’opera di Goethe, che non ha redenzione. Godendo, Faust precipita necessariamente nella consunzione necessaria.

2. Vi è chi scopre che il vivere per se stessi è insipido, privo di gusto, poiché dà sì piacere, ma distrugge e basta. E allora c’è un personaggio che si affaccia al mondo, entra in rapporto con gli altri, scopre che deve essere in rapporto vero con gli altri; amicizia, amore, giustizia, ideali, sono il senso della sua esistenza e fa di essa lo strumento con cui gli ideali possono realizzarsi. È come chi, offeso dal fratello che gli ha sottratto l’eredità, si organizza con un gruppo di uomini e muove contro di lui e contro le leggi della società, in nome di una sua legge del cuore. Questi ideali sono però le “leggi del cuore”, in dissidio con le leggi dello stato. La presunzione della superiorità delle leggi del cuore diventa un delirio che impedisce a questo tipo di uomini di cogliere il senso del proprio limite. La coscienza singola crede di essere metro e misura di tutta la realtà, in ragione di una legge che sente in sé, contro il mondo, che è nel suo complesso totalmente sbagliato: io sto nel vero, se la realtà non mi corrisponde tanto peggio!

3. Una terza possibilità è chi, pur avvertendo i torti del mondo, è convinto di doverli sì riparare, ma coltivando una propria personale virtù, e così si separa dall’effettivo corso del mondo; compie in se stesso, il divorzio tra la sua virtù e il corso del mondo. Da una parte il mondo che prosegue per conto suo, e dall’altra il cavaliere dalla triste figura, che traveste la realtà delle sue proiezioni mentali. (Don Chisciotte)

  ***
La coscienza, alla fine di questa sezione, scopre di non vivere isolata dal mondo, ma di essere sempre in relazione col mondo. L’individualità della coscienza è sempre in relazione con un mondo. Essa scopre di essere, cioè, uno dei tanti prodotti dello spirito. «L’io che è noi e il noi che è io» = Lo Spirito. (definizione che dà Hegel)
Lo spirito è quella realtà di cui io mi rendo conto di far parte, che diventa consapevole con me. Sono le culture storiche (con le relative istituzioni) che si susseguono nella storia dell’umanità. È il prodotto di un gruppo, di una nazione, dello spirito. Si deve dunque passare dal punto di vista dell’individuo al punto di vista delle comunità storiche nelle sue forme culturali e istituzionali fino ad arrivare allo stato prussiano, alla religione luterana, e alla filosofia hegeliana. Qui finisce il primo libro della FdS. D’ora in poi, il soggetto del percorso non è più l’individuo, ma lo spirito. Questa sarà l’ulteriore evoluzione della FdS, nella seconda parte: Spirito, Religione, Sapere assoluto.


Si tratta di una lettura della storia dell’umanità dal punto di vista spirituale. Essa ha
1.      Bella eticità greca. (mondo greco)
2.      Separazione, frammentazione della bella eticità greca (cioè l’età moderna).
3.      Momento attuale = Conciliazione (dopo la Rivoluzione francese).




Link di spiegazione relativi ala FDS









[1] Secondo Hegel, col cristianesimo Dio è venuto, ha colmato il solco che separava l’uomo da Dio, ci ha mandato il Cristo, Dio fatto uomo, che ha detto: “Tutti gli uomini sono riconciliati col Padre”. Il messaggio del cristianesimo è il perdono, la riconciliazione tra l’uomo – il finito - e Dio l’infinito, che si manifesta con l’amore universale: Dio è in noi. Nella sua forma protestante-luterana, Hegel vede il cristianesimo come la più alta espressione dello spirito prima della filosofia; pari, quanto al contenuto (riconciliazione finito-infinito= idealismo hegeliano), alla filosofia, diversa solo nella forma: giacché la filosofia non ha bisogno di “rappresentazione” (vale a dire di riti, di culto, di esteriorità) ma vive il medesimo contenuto della religione cristiano-luterana nella forma del puro pensiero concettuale. Ma il cristianesimo ha al proprio interno diversi modi di essere, e quello che Hegel qui presenta è quello primitivo (tesi) e medievale cattolico (antitesi), che non è ancora diventato pienamente autentico (luteranesimo). Quello luterano sarà da Hegel presentato nella seconda parte della FdS e nell’Enciclopedia. Nelle Lezioni di filosofia della Religione tutto questo tema è trattato dettagliatamente.


[2] La resurrezione non si mostra nel piano empirico, ma nella vita della comunità riconciliata, dirà Hegel da buon teologo protestante.

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